Era una giornata stranamente calda, quella. Il sole picchiava, martellava, ed io aspettavo. Aspettavo che giungesse la sera, la notte ed il giorno dopo e così via, per potermene andare più in fretta. Venti agosto o giù di lì, il sole mi bruciava la pelle già abbronzata che la mia canottiera nera lasciava scoperta ed i rovi graffiavano le mie gambe scoperte. Entro in una sala deserta del museo, alla ricerca di aria condizionata. Fuori dall'enorme vetrata c'è un cielo fantastico, se mi piego sulle ginocchia posso osservare i fiori estremamente curati nei minimi particolari. Dei passi alle mie spalle mi fanno voltare improvvisamente -i'm sorry, i didn't want to scare you, mi dici. Anche tu, come me, hai dipinta sul volto un'aria spaesata, ma la tua canottiera -nera- è praticamente bagnata ed aderisce al tuo petto pallido. I tuoi pantaloncini sembrano quasi ridicoli, sproporzionati se paragonati alle lunge gambe che vestono, e la tua tracolla di cuoio quasi tocca terra. Hai i capelli color del miele, poca barbetta incolta ed occhi profondi del colore dell'oceano. La tua pelle, pallida avena, è bruciata dal sole sulle spalle e sul torace. Profumi d'Albione, tutto di te mi ricorda l'oltremanica. Sei un po' il Damon Albarn dei vecchi tempi, un po' tanto Patrick Wolf. E mentre penso tutto questo tu mi fissi negli occhi e, inaspettatamente, appoggi una tua mano -così grande, così definita nei suoi armoniosi contorni- sulla mia spalla. E sorridi.